Leggiamo, ora, con attenzione quel che ci dice Movimento, dove egli distingue tre diversi
gradi di attuazione nella vita dopo la morte.
C’è prima un “appagamento dello stato psichico”: e ben si comprende come questo si
realizzi nelle sfere di luce nel mondo astrale formale.
Si attinge, poi, lo “spirituale” con l’elevarsi alle sfere ormai libere da ogni condi-
zionamento della forma.
C’è, infine, la “santità”. Ed ecco il testo che ci interessa, ricavato dal verbale: Io ora
evolvo verso la santità. Quando lo stato psichico è appagato, allora cominci a sentire che ti
manca qualcosa e cerchi lo spirituale. Ma avverti che non è ancora ciò che cerchi. Allora
pensi alla santità. Nota: ho detto ‘pensi’, ma è poco se non riesci a realizzarla, a viverla,
insomma se non divieni santo.
Alla mia domanda “Essere santo che vuoi dire più esattamente?” Movimento replica:
Essere di Dio e in Dio. È un cammino irto di difficoltà. Si fa presto a confondere spiritualità
con santità.
“Che cos’è la prima, in contrapposto alla seconda?” Spiritualità non è ancora essere di
Dio in Dio, essere l’alito di Dio.
“E cos’è positivamente?” È l’anima aperta ai valori universali. Secondo me anche un ateo
può essere spirituale (377).
Ecco un’altra variazione sul tema, a conferma e progressiva integrazione del quadro:
Prima di tutto, ci spiega Ascesa, gli sforzi maggiori sono stati quelli di perdere l’aspetto
terreno e tutte le sue connesse implicazioni. Inoltre ci sono gli affetti, i ricordi, i sentimenti.
Dimenticare questi è più complesso, e cadute e ritorni sono frequenti . Quando di tutto di
sicuro ti sei liberato, allora puoi dirti spirito. Ora ha inizio la vera vita spirituale. “E a
questo punto cosa rimane da intraprendere?” Un lungo cammino in cui l’anima deve
santificarsi (341).
“A che aspiri?” chiedo alla già incontrata anima che tende alla perfezione. Mi risponde,
appunto, Alla perfezione, ribadendo il concetto.
Le chiedo che mi dica cos’è in termini più esatti. Ossia, spiega, l’anima deve diventare
perfetta prima di iniziare il cammino della santificazione.
“E questa ‘perfezione’ come grado previo rispetto alla ‘santificazione’ in che consiste?”
Nell’essere senza alcun desiderio o altra brama.
“E per ‘santificazione’, allora, che cosa intendi?” È riempire l’anima dell’amore di Dio
(375).
Viene da osservare che quella di cui si parla qui appare piuttosto una perfezione di tipo
buddhistico (Piccolo Veicolo), mentre la santificazione sembra stare più a casa propria in un
contesto ebraico-cristiano o islamico o comunque teistico-devozionale.
Anche Jagur, maestro della sapienza astrale, ribadisce questi concetti con un linguaggio
che pare mutuato più da tradizioni orientali, sempre attraverso probabili mediazioni
teosofiche.
Premette Jagur che la via iniziatica è lunga, che chi inizia non deve lasciarla e che è per
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tal motivo che l’iniziando solo quando si sentirà pronto la intraprenderà.
“Quali tappe essenziali ha questo cammino?” chiedo alla guida, che replica:
Perdere l’illusione. Il mondo qui è tutto illusorio. Questo è il mio compito. (Sono le parole
con cui Jagur mi conferma che il suo compito di guida è avviare e assistere le anime sul
cammino ascetico della perdita della forma).
“Quali passi ulteriori sono previsti?” Se tutto è illusione, l’anima se ne libera e va alla
ricerca di sé e del Divino. Quando se ne ha la consapevolezza, allora si spicca il volo verso
la Divinità con tecniche contemplative di adorazione (372).
L’attuazione del Sé in quella consapevolezza che è autocoscienza è una perfezione in cui
l’anima prende coscienza di se medesima come puro spirito. Si tratta di una vita spirituale
epurata e come tutta concentrata nel suo principio, che è il principio della pura soggettività.
Siamo, qui, nell’ambito di quella che può chiamarsi la “ricerca del Sé”. Siamo nel filone
Upanishad-Vedanta-Yoga della grande tradizione spirituale dell’India.
L’attuazione di un Sé concepito in questi termini non può, ovviamente, coincidere con
l’attuazione dell’umanesimo nella pienezza dei suoi contenuti specifici, storici, culturali, e
nemmeno può identificarsi con l’attuazione religiosa (comunione con Dio, santità).
Per me è chiaro, comunque, che ciascuna di queste forme dello sviluppo umano ha il suo
posto in una attuazione integrata, che dovrà comprenderle tutte insieme e che pare si debba
conseguire in pieno solo alla conclusione dell’intero processo evolutivo come perfezione
veramente ultima.
L’esperienza del Sé nel suo puro principio non può essere che un’esperienza di puro
vuoto. Chi la realizza ha, per oggetto esclusivo della sua meditazione e di ogni sua attenzione,
il vuoto.
È un vuoto che viene assolutizzato da chi si ferma ad esso: Nel vuoto c’è tutto, ci dice un
Guru non meglio individuato, il quale attesta di esser vissuto in India e pare fermo a questa
posizione e chiuso a qualsiasi attuazione di diverso genere o di qualsiasi preteso o presunto
grado ulteriore (331).
Anche Nulla — si ricorderà — parlava di uno svuotamento da lui conseguito con tecniche
distruttive. È, però, ben lungi dall’assolutizzarlo, dal considerare il proprio vuoto come il
conseguimento ultimo e perfetto. Quando io gli chiedo se egli dovrà tendere, o meno, a mete
ulteriori, mi parla di un riempimento. “Di che cosa?” gli chiedo. Mi precisa: D’amore (224).
È da qui che derivano la ricchezza e la pienezza dell’anima, per mutuare l’espressione di
un’altra entità (201).
In una esperienza di vuoto perseguita per se medesima può essere che l’anima trovi nel
vuoto stesso veramente tutto, come l’amico Guru che si è menzionato or ora. C’è l’artista, che
si dà tutto alla propria arte e tutto vi trova. C’è il politico, il quale si dà tutto alla lotta per il
potere e trova nel potere stesso l’oggetto delle massime aspirazioni concepibili. C’è
l’innamorato, che trova tutto nel suo amore. C’è chi assolutizza la ricchezza, lo sviluppo della
propria azienda. O magari le vittorie che può conseguire la propria squadra di calcio. C’è chi
assolutizza la propria bellezza, il successo, la gloria o quei suoi moderni surrogati che sono il
successo e la celebrità. C’è chi sacrifica agli altari di idoli vecchi e nuovi. Le esemplificazioni
che si possono compiere son quasi senza limiti.
Finché si rimane chiusi nel proprio pseudo-assoluto, si continuerà ad avere delle cose una
visione indubbiamente parziale e inadeguata. Che cos’è che ci farà uscire da una tale
chiusura?
Penso che interverranno, qui, due elementi essenziali: da un lato è lo stesso preteso
assoluto che può rivelare la sua crisi dall’interno dell’esperienza che il soggetto ne ha;
dall’altro lato (diciamo: all’esterno) c’è la manifestazione dell’assoluto vero, cioè di Dio.
La chiusura in sé, o la chiusura in uno pseudo-assoluto, rendono il soggetto meno recettivo
al manifestarsi dell’Assoluto vero per quel che veramente è.
Una tale recettività aumenta, invece, in ragione dell’entrare in crisi del falso assoluto.
D’altra parte è il risplendere dell’Assoluto, quello vero, che rende sempre più visibile e
chiara ed evidente la crisi.
Come pure è l’evidenziarsi della crisi che, a propria volta, apre sempre più il varco all’au-
tomanifestazione del vero Dio.
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Quanto a Dio, Egli è da sempre Se stesso. E può comunicarsi solo in ragione della
recettività degli esistenti, delle creature.
Venendo al punto che ci interessa in particolare, potremo dire allora: l’anima che
raggiunge l’esperienza del vuoto vi si potrà chiudere, ma potrà anche uscirne via via che il
vuoto rivelerà la sua crisi e via via che Dio stesso, penetrando attraverso gli spiragli che si
vengono ad aprire nell’anima, si manifesterà in maniera sempre più intensa riempiendo
sempre più l’anima di Sé.
È probabile che l’aridità possa precisamente definirsi come l’esperienza del vuoto in
quanto rivela la sua crisi, la sua inadeguatezza.
Ed è probabile che proprio in questo senso possano interpretarsi le parole di Fuoco
Spirituale: Prima di tutto è una perdita, un senso di desolazione, di svuotamento, oserei dire
di nulla. Allora sorgono dubbi a non finire. Pensi che è tutto un inganno. Insomma ti senti in
fondo a un pozzo. A questo punto c’è l’abbandono totale e incondizionato:
Signore, sono tua creatura, fai di me quello che vuoi’. E Lui con il Suo amore, con la Sua
carità ti aiuta. È opera Sua se all’improvviso senti nascere in te la gioia dell’elevazione, del
progredire dell’anima che vuole diventare santa. E da quel momento in poi la grazia di Dio
non ti abbandona più. È Lui in te. È un andare sempre avanti nella scalata alla santità finale
(206).
Come si vede, la grazia divina ha già un ruolo sempre più essenziale. Il sole è quello che è,
in se stesso, e tuttavia illumina dove più dove meno, a seconda che si aprano o meno le nubi e
anche le imposte delle nostre finestre.
Con la sua iniziativa, che sempre è e rimane primaria di fronte alle iniziative nostre di
uomini, la grazia divina illumina e sostiene anche la nostra purificazione. E ora, nella misura
in cui l’anima si apre e si affida sempre più alla grazia, questa accentua sempre piu il suo
ruolo. È Dio che, fondamentalmente, opera ogni cosa. Per dirla con le parole della guida Tito:
Tu pensi di essere tu ad agire, ma è Lui (102).
Via via che riempie l’anima di Se stesso, Dio le infonde un amore sempre più vivo,
profondo, intenso e ardente. Ad Astor chiedo: “Come senti la presenza di Dio in te?”
Risponde l’entità: Come un ardore che invade tutta la tua energia (218). Si tratta, aggiunge
Scordarello, di un’energia potente che ti dà una carica.
È importante fermare l’attenzione su una precisazione che viene subito dopo. Parlando di
Dio, Scordarello attesta: Lo sento come un’energia estranea alla mia. Gli chiedo di
completare questo pensiero: Non è facile, replica ancora, perché è una sensazione energetica.
Senti che è un’energia che ti trascende e che è più potente della tua. Aggiunge infine: È un
sentimento di immensa gioia, perché, sei consapevole che non è la tua energia (340).
Questa divina fiamma, che invade l’anima, la riempie e alfine la prende tutta, è ben
distinta dall’anima stessa: è trascendente. Tale idea, già espressa con chiarezza nelle parole di
Scordarello, si trova ribadita e svolta da Movimento: [La presenza di Dio in te] è una
seconda anima che ti domina e ti pervade. Immagina un arto freddo quasi congelato, e
all’improvviso comincia a circolare il sangue. L’arto che inerte riprende colore, vita,
energia, movimento. Così è la sensazione dell’anima sulla via della santificazione (377).
Ancora sulla trascendenza di Dio, che si fa immanente in noi con la Sua grazia: Si può dire
che è Dio che ormai ci vivifica, è la testimonianza di Ardente. Gli chiedo se egli provi, o
meno, di Dio un’esperienza diretta. Sì, replica, è dentro come un fuoco, anche se con
l’intelligenza sai che è infinitamente altro (204).
Negli stadi iniziali di quel processo di riempimento che porta alla santificazione, l’anima
esperisce una sorta di alterna vicenda di pieno, poi di vuoto, poi ancora di pieno. Ci sono,
dice Yale, momenti che ti sembra di essere vicino alla perfezione, ma subito ti accorgi di
esserne abissalmente lontano. C’è un fuoco d’amore che ti arde, e all’improvviso il gelo. In
altre parole, per un momento ti pare di essere in Dio, ma immediatamente ti accorgi di
esserne ancora lontano. Sono momenti in cui ci si rende conto di avere un amore tiepido che
non è abbastanza per essere vicino a Dio (189).
Un tale moto alterno appare più caratteristico di quelli che si sono considerati gli stadi
iniziali di questo processo di riempimento. Sono gli stadi cui si riferisce Anima Purificata,
allorché, alla domanda “Anche tu hai perduto la forma?” replica: Da tempo, e un calore
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modesto di Dio ha invaso la mia anima (241).
Dio è il desiderio che ti consuma, afferma Venceslao. “Lo senti come un fuoco?” è la mia
domanda, che ottiene questa precisazione: Non come un ardore possente. Ma qui si va per
gradi (338).
“Di che condizione sei?” chiedo a La Certezza, da cui mi sto accomiatando. Ne ottengo la
risposta: Sono all’inizio della scalata santa. “Come senti Dio nel tuo intimo?” Tepore.
Aggiunge: E non -ino. “Ho capito: il primo grado è Teporino, poi c’è Tepore. Non sei più al
primo gradino: non sei più Sottotenente...” Sì, sì, sì “ Ma sei Tenente, con due stellette”. Sì,
sì. “Dopo Tepore che c’è?” Fuochino. “Auguri per la tua promozione a Capitan Fuochino”.
Sì. Addio (232).
C’è, poi, un’altra entità, che da noi si fa chiamare Fochino, senza la u. Nel suo presentarsi
parla, in prima persona plurale, a nome di tutto un gruppo di anime di cui fa parte: è, dice, un
gruppo di anime che vive la gioia di sentirsi nella scia del Dio Padre. Aggiunge Fochino:
Ora siamo alla prima scoperta dell’Amore. Ti dona calore, certezza di continuare un
cammino non facile, ma sicuramente con meravigliose tappe di perfezionamento spirituale.
Chiedo a Fochino che mi dica qualcosa di queste tappe. Si tratta, risponde, di ulteriori fasi
di elevazione da conseguirsi via via attraverso un cambio di sfere: dal calore all’ardore al
fuoco perenne.
Richiesto di offrire maggiori dettagli, Fochino riassume il processo di elevazione
dell’anima precisandone i termini come segue: Dopo un periodo nel quale passi tutte le fasi
dalla spoliazione fino all’ultima fase, quella dell’aridità in cui l’anima è completamente
annientata, inizia la risalita: un teporino, un calduccio, tepore, calore, calore che via via
diventa ardente, e poi fuochino, fuoco e fuocone: l’anima ormai è fiamma.
“E tu, personalmente, a che livello ti trovi?” Appena teporino; ma in me, che tutto tendo a
Dio, c’è la tensione di raggiungere il fuoco perenne.
“Ti auguriamo di arrivarci presto”. Quando avverrà non lo so, ma il desiderio è ardente.
“Che cosa c’è dopo quel punto di arrivo? cioè dopo quello che tu chiami il ‘fuocone’?” Sei
all’inizio della santificazione. Poi anche in questa condizione c’è un lungo cammino.
“Quali tappe ha il cammino della santificazione?” Ora non mi sono state dette.
“E il punto d’arrivo finale, proprio ultimo, qual è?” La meta finale è il risorgere santificati
e uomini nuovi in un mondo trasformato dalla potenza e amore di Dio (227).
Se negli stadi iniziali ci possono essere quelle oscillazioni, quelle alternanze, quei
temporanei ritorni indietro cui si accennava, a un certo momento l’unione con Dio diviene
stabile e irreversibile, così come si stabilizza l’esperienza viva dell’unione: a quel punto
l’anima è immersa in un’estasi continua. Tale è il fuoco perenne in virtù del quale l’anima
ormai è fiamma, per riprendere due espressioni dell’ultima entità intervistata.
È un’idea che lo stesso Yale, già menzionato, ribadisce con la massima chiarezza:
nell’ulteriore cammino che sempre più avvicina a Dio devi diventare fiamma d’amore ed
ardere ininterrottamente ed esclusivamente per Lui (189).
Sempre nell’attestare quella che è la loro intima esperienza di Dio, Amico parla di tutto
ardore (228) mentre Risorgerò afferma che Dio è un fuoco vivificante. Richiesto di dire in
proposito qualcosina di più, aggiunge che allo stadio in cui egli si trova si è sempre lieti e
felici e ormai la certezza di un cammino senza cadute ti fa sentire un essere quasi santo
(207).
Va precisato, però, che a questo punto ci si trova pur sempre in uno stadio definibile come
iniziale, dice E, perché l’alta santità è la meta generale e finale dei santi (350).
La via che porta a diventare santi è, per Yale, un itinerario simile a quello che in terra
percorrono i mistici (189).
A conferma di quel che si è detto, giova riportare la sintesi che Impegno Spirituale
propone dell’intero processo.
“Qual è la tua condizione?” Sono all’inizio di una via che mi deve portare alla pienezza.
“Alla pienezza di che?” Dio.
“Puoi spiegarci più in dettaglio, per favore?” Sono stato uomo, poi anima con aspetto
corporeo, poi ho smesso l’aspetto per acquisire l’energia. Poi ho svuotato l’energia di tutto:
ricordi, affetti, sensazioni, cultura, sapere. E giù fino in fondo. nulla, vuoto, un totale annien-
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tamento. Ora a questo punto sei pronto per la lenta risalita. Ora nell’energia rispunta il
desiderio dell’incontro con l’Assoluto: e pian piano il desiderio si trasforma in un tepore
divino e si percorre tutta una gamma di calore fino ad arrivare dall’energia alla fiamma
perenne (230).
Nell’esperienza di Dio, afferma ancora Fochino, l’anima si sente piena di ardore, perché
comprende di essere creazione di un Padre non terreno ed effimero, ma eterno (227).
È chiaro che, ben prima che essere una conclusione razionale, quell’intuizione è una presa
di coscienza vitale e immediata.
In una tale esperienza di Dio si scopre in Lui il Creatore e ci si scopre creature. Si potrebbe
chiamarla “esperienza creaturale”.
Qui, nota Ascesa, riacquisti la consapevolezza di essere da Lui creato e ritorni a Lui con
slancio filiale (341).
È un’esperienza che Sirio definisce lapidariamente il ritrovarsi creature (51).
Si ricordi la menzionata espressione Signore, sono tua creatura, fai di me quello che vuoi
di Fuoco Spirituale. L’esperienza creaturale è strettamente connessa all’intima esperienza che
noi possiamo avere del Dio creatore che ad ogni momento ci pone in vita e sostiene, non solo,
ma ci trasforma e ci plasma.
Ad Astor chiedo: “Come senti gli uomini?” Creature, è la sua risposta. Io e voi siamo in
Dio perché da Lui venimmo (218).
Scoprire in Dio il Creatore, in me la creatura, negli altri umani e in genere in tutti gli altri
esseri le con-creature è un’esperienza sola e unica e sempre la medesima, per quanto possa
articolarsi in questi diversi aspetti.
L’entità E definisce la propria esistenza come vita puramente adorante Dio. Le chiedo se
possa darcene un’idea; ed E cerca di farlo con le parole che seguono: Immerso in atmosfera
santificata adori Colui che tutto dona sia a voi che a noi (350).
Anche Oxilia è divenuta pura energia adorante gli dèi. Le chiedo come si attui tale
adorazione in termini concreti. Con vibrazioni di energia, spiega, formiamo canti, danze, lodi
ai Sublimi (279).
Per menzionare un’altra delle sette anime dell’antica Roma, è con queste parole che Livio
cerca di farmi capire come avvengano, sempre in concreto, quelle danze che fanno parte
dell’adorazione: si tratta di onde energetiche che vibrano all’unisono intrecciandosi.
Da un bel pezzo tali anime hanno perduto la loro forma similcorporea, e quindi è chiaro
che non sono visualizzabili. Eppure, aggiunge Livio, potresti impropriamente disegnarle
come tante linee curve che si intersecano armoniosamente (291).
La via della santificazione delle anime porta pure alla contemplazione della Divinità. Qui
la contemplazione della Divinità nei suoi aspetti costituisce come una tappa preliminare
rispetto a quella che sarà, in ultimo, la contemplazione della Divinità in se stessa.
Orazio, un’altra delle sette anime dell’antica Roma, fa cenno a sfere più elevate dove si
contempleranno gli dèi ma non ancora il Dio supremo. Gli chiedo se il Dio supremo già lo
adorino. Sì, risponde Orazio, ma poi lo si contemplerà. “E alla fine di tutto che cosa vi
attende?” Saremo dèi ed entreremo nell’Olimpo e vedremo Juppiter di fronte a noi come il
Sommo (301).
Da un colloquio con Livio mi faccio l’idea che, nella terminologia pagana di quelle anime
antiche, gli dèi equivalgono ai santi, così come il diventare dèi equivale a quella che la nostra
terminologia cristiana chiama la “santificazione” (293). D’altra parte la teologia cristiana
orientale non usa forse il termine “deificazione” come sinonimo di quest’ultima?
Se poi consideriamo la fenomenologia religiosa in una chiave più filosofica, che cosa sono
in fondo gli dèi se non i molteplici aspetti del Dio uno?
Anche Ascesa parla della contemplazione specificando: Sono tutti gli aspetti di Dio che tu
apprendi a comprendere per apprezzarne il valore. Non è ancora la contemplazione di Dio,
ma dei suoi aspetti: Dio come bontà, come carità, come giustizia. Non sono ragionamenti,
ma è un aderire dell’anima.Chiedo se un tale aderire dell’anima ai vari aspetti di Dio non
preluda a un aderire a Dio stesso. Sì, risponde, ma è un momento ulteriore. Ancora precisa
che tale momento ulteriore è proprio quello di aderire a Dio. Esso presuppone il
raggiungimento della santità piena da parte dell’anima (341).
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