venerdì 1 marzo 2013

Le prove e la morte


Fissando lo scopo dell’esistenza oltre la fortuna e il piacere, un intero
rivolgimento si opera nel nostro modo di comprendere la vita. L’universo è un
campo ove l’anima combatte per la propria elevazione, ed essa la raggiunge
cogli sforzi coi sacrifici, colle sofferenze. Tanto il dolore fisico quanto quello
morale, sono elementi necessari dell’evoluzione, mezzi potenti di sviluppo e di
progresso che ci insegnano a conoscerci meglio, a dominare le nostre
passioni, ad amarci sempre più. L’essere deve acquistare nel suo cammino la
fede, la scienza e l’amore; più sa, più ama e più si eleva. La sofferenza ci
obbliga a studiare per combattere e vincere le cause che la producono, e la
conoscenza delle cause risveglia in noi una più viva simpatia per coloro che
soffrono.
Il dolore è la suprema purificazione, la scuola a cui si attinge la pazienza, la
rassegnazione, tutte le doverose austerità; è la fiamma al di cui fuoco si fonde
l’egoismo e si consuma l’orgoglio. Tal volta, nelle tristi contingenze, l’anima
provata si ribella, rinnega Dio e la sua giustizia; ma quando, passato
l’uragano, essa si esamina, comprende che quel male apparente non era altro
che un bene, e riconosce che il dolore seppe renderla migliore, più accessibile
alla pietà, più tenera verso gli infelici.
Tutti i mali della vita concorrono al nostro perfezionamento; il dolore,
l’umiliazione, l’infermità, la sventura, separano lentamente il meglio dal
peggio, ed è per ciò che quaggiù vi sono più sofferenze che gioie. La prova
tempra il carattere, affina i sentimenti, doma le anime impulsive o superbe.
Anche il dolore fisico ha la sua utilità. Esso scioglie chimicamente i legami che
avvincono lo spirito alla carne, lo libera dai fluidi pesanti che lo avvolgono
anche dopo la morte, e lo trattengono nelle regioni inferiori. Così si spiega, in
certi casi, la morte prematura dei fanciulli: sono anime che avendo acquistato
il sapere e la virtù occorrenti per ascendere, vennero arrestate nel loro volo da
un residuo di materialità, e ritornano a completare la loro purificazione nella
sofferenza.
Non imprechiamo al dolore, esso soltanto può strapparci alla indifferenza e
alla voluttà, esso solo ci plasma l’anima donandole la sua forma più pura, la
sua più perfetta bellezza.
L’esperienza è un rimedio infallibile per la nostra ignoranza, e la Provvidenza
procede con noi come farebbe una madre antiveggente con un suo indocile
figlio. Quando noi resistiamo ai suoi richiami e trascuriamo i suoi
avvertimenti, essa ci abbandona alle delusioni ed ai rovesci, poiché l’avversità
è la miglior scuola della saggezza.
Tale è il destino della maggioranza; sotto un cielo solcato da qualche raro
lampo, noi dobbiamo percorrere un’ardua via, coi piedi lacerati dai rovi e
dalle pietre. Uno spirito in nere vesti guida i nostri passi: è il dolore - dolore
santo che noi dobbiamo benedire, poiché, scuotendo il nostro essere, lo
sbarazza dei vani gingilli di cui si compiace ornarsi, e lo rende atto a sentire
ciò che è nobile e bello.
Dati questi principi, la morte perde il suo spaventoso carattere, e risulta una
trasformazione necessaria, un rinnovamento. In realtà nulla può morire, la
morte non è che apparente; soltanto la forma esterna si muta, il principio di
vita, l’anima, rimane nella sua unità permanente ed indistruttibile.
Essa si ritrova al di là della tomba col suo corpo fluidico, nella pienezza delle
sue facoltà, con ciò che ha potuto acquistare - intelligenza, aspirazioni, virtù,
tutte le potenze di cui si è arricchita durante le sue esistenze terrestri.
Sono questi i beni imperituri di cui parla il Vangelo, i beni che «i vermi e la
ruggine non rodono e i ladri non rubano» sono queste le sole ricchezze che
possiamo portare con noi, e realizzare nella vita futura.
La morte, e la reintegrazione che a suo tempo la segue, sono due forme
essenziali del progresso; interrompendo le radicate abitudini che abbiamo
contratto, esse ci riconducono in altri ambienti, danno ai nostri pensieri un
diverso indirizzo, ci costringono a piegare il nostro spirito ai mille aspetti
dell’ordine sociale e universale.
Quando giunge la sera della vita, allorché la nostra esistenza sta per passare,
come la pagina di un libro che si svolge per far luogo ad una pagina bianca, ad
una pagina nuova, l’uomo saggio consulta il suo passato e richiama alla
memoria le sue azioni. Felice colui che in tale momento può dire a sé stesso di
aver speso bene i suoi giorni; felici coloro che accolsero con rassegnazione e
sopportarono con coraggio le loro prove! Essi, affinando l’anima nel dolore,
ne eliminarono tutto ciò che vi era di fiele ed amarezza. Ripensando a questa
vita difficile, il saggio benedirà le pene sofferte, e con serena coscienza, senza
paura, vedrà avvicinarsi l’istante della partenza.
Bando alle teorie che fanno della morte la soglia del nulla o il preludio dei
castighi eterni; tetri fantasmi della teologia, dogmi spaventevoli, sentenze
inesorabili, supplizi dell’inferno, fate luogo alla speranza, alla vita eterna! Non
una cieca tenebra, ma una luce abbagliante ci nasconde la tomba.
Avete mai osservato la farfalla, dalle ali dorate uscire dall’informe crisalide,
dal ripugnante involucro del bruco, nel quale l’insetto strisciava sul suolo?
L’avete veduta libera, nell’aria e nel sole, svolazzare di fiore in fiore? Nessuna
rappresentazione più fedele del fenomeno della morte. Anche l’uomo è una
crisalide che la morte trasforma; il corpo umano l’involucro di carne, ritorna
al gran letamaio, la nostra miserabile spoglia rientra nel laboratorio della
natura, ma lo spirito, che ha compiuta l’opera sua, si slancia verso una vita più
alta, verso la vita spirituale che segue a quella corporea, e separa ognuna delle
nostre incarnazioni come il giorno divide le notti.
Compresi da questa fede noi non temeremo la morte e, come gli antichi Galli,
oseremo fissarla senza terrore. Non più lamenti e lagrime, non più pompe
sinistre e lugubri canti: i nostri funerali diventeranno una festa che celebrerà
la liberazione dell’anima, il suo ritorno alla vera patria.
La morte è la grande rivelatrice; quante volte nelle ore di prova, quando fa
buio intorno a noi ci siamo domandati: «Perché sono nato? Perché non rimasi
nella notte profonda, là dove non si sente e non si soffre, dove si dorme il
sonno eterno?». E in queste ore di dubbio e di angoscia una voce si leva e sale
fino a noi, e questa voce dice: «Soffri per crescere e per purificarti; sappi che il
tuo destino è grande, che questa fredda terra non sarà il tuo sepolcro. I mondi
che brillano nella corona dei cieli sono le tue dimore future, l’eredità che Dio
ti riserva. Tu sei per sempre cittadino dell’universo; appartieni ai secoli
passati come ai secoli avvenire. Nell’ora presente stai preparando la tua
elevazione: sopporta dunque con calma i mali scelti da te. Semina nel dolore e
nelle lagrime il grano che germoglierà nelle tue vite future, semina anche per
gli altri, come altri seminarono per te! Spirito immortale, avanza con passo
fermo sul sentiero erto, verso le altezze da cui l’avvenire ti apparirà senza veli.
L’ascensione è penosa, e il sudore bagnerà spesso la tua fronte, ma dalla vetta
tu vedrai spuntare la grande luce, vedrai salire all’orizzonte il sole della verità
e della giustizia!».
Quella che così ci parla è la voce dei morti, delle anime amate che ci
precedettero nel regno della vera vita. Esse non dormono sotto la lapide del
sepolcro ma vegliano sopra di noi; dalle profondità dell’invisibile ci
contemplano e ci sorridono, e - mistero divino ed adorabile - ci parlano e ci
dicono: «Il dubbio è sterile, lavorate ed amate: quando avrete compiuta la
vostra parte, la morte ci unirà di nuovo». 

Tratto da:  Leon Denis - Dopo la Morte -

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