sabato 30 marzo 2013

Rassegnazione nell’avversità


La sofferenza è una legge del nostro pianeta. In ogni condizione, in ogni età,
sotto ogni clima, l’uomo soffre e piange, malgrado il progresso sociale, milioni
d’esseri si piegano ancora sotto il peso del dolore.
Le classi elevate non vanno esenti dal male e gli spiriti più colti sentono,
anche più vivamente il dolore: il ricco soffre come il povero, nella carne e nel
cuore, e da ogni punto della terra si leva il lamento umano.
Anche nell’abbondanza, un senso di oppressione, una vaga tristezza
s’impadronisce talvolta delle anime sensibili, le quali intuiscono che il bene
non è realizzabile quaggiù dove di esso traluce soltanto qualche fuggitivo
bagliore. Lo spirito anela a vite, a mondi migliori, e un intimo senso gli dice
che tutto non si trova quaggiù. Per colui che possiede la filosofia degli spiriti,
questo vago intuito diventa certezza: egli sa dove va, conosce il perché dei suoi
mali, la ragion d’essere della sofferenza, e, al di là delle ombre e delle angosce
della terra, intravede l’alba di una nuova vita.
Per valutare i beni e i mali dell’esistenza, per sapere che cosa siano veramente
la fortuna e la sventura, bisogna elevarsi oltre la piccola cerchia della vita
terrena. La conoscenza della vita futura e della sorte che ci attende, ci
permetterà di misurare le conseguenze delle nostre azioni, la loro influenza
sul nostro avvenire.
Il male, considerato da questo punto di vista, non sarà più per l’uomo il
dolore, la perdita delle persone care, la privazione e la miseria: soltanto per
chi non vede nel futuro, la povertà, l’infermità, la malattia possono essere un
male. Per lo spirito che vede dall’alto, il male sarà l’amore del piacere,
l’orgoglio la vita inutile e colpevole. Non si può giudicare di una cosa senza
conoscerne le conseguenze, è perciò che nessuno comprende la vita se non ne
conosce lo scopo e le leggi. Le prove, purificando l’anima, preparano la sua
elevazione e la sua felicità, mentre i godimenti della terra, le ricchezze, le
passioni, la indeboliscono e le procurano, nell’altra vita, disinganni amari.
Così colui che soffre d’anima e di corpo, che è oppresso dall’avversità, può
alzare lo sguardo al cielo; egli sta pagando il suo debito al destino, sta
conquistando la propria liberazione. Ma colui che si compiace nella
sensualità, si fabbrica le proprie catene, accumula sempre nuove
responsabilità che peseranno gravemente sul suo avvenire.
Il dolore, sotto tutte le forme, è il rimedio supremo delle imperfezioni e delle
infermità dell’anima; senza il dolore non è possibile la guarigione. Come le
malattie organiche sono spesso la conseguenza dei nostri eccessi, così le prove
morali che ci colpiscono sono il risultato delle nostre colpe passate che, presto
o tardi, ricadono su di noi colle loro logiche conseguenze, poiché tale è la legge
di giustizia e di equilibrio morale. Accettiamone gli effetti come ci
assoggettiamo ai rimedi amari, alle dolorose operazioni che devono ridonare
al nostro corpo la salute e l’agilità. Anche quando la tristezza, le umiliazioni e
la rovina ci accasciano, non disperiamo: l’agricoltore squarcia il seno della
terra per farne scaturire la messe dorata, così dallo strazio dell’anima nostra
germoglierà una copiosa fioritura di bene.
L’azione del dolore stacca da noi l’impuro e il malvagio, i vizi, i desideri, tutto
ciò che viene dalla terra e che a questa deve ritornare. L’avversità è la grande
maestra, il campo fertile della trasformazione; alla sua scuola le passioni
malvagie si cambiano gradatamente in generose, in amore del bene: nulla va
perduto. Ma questa trasformazione è lenta e difficile: soltanto la sofferenza, la
lotta costante contro il male, il sacrificio di sé, possono realizzarla; per loro
mezzo l’anima acquista l’esperienza e la saggezza e, da frutto verde ed acido
qual era, si cambia, sotto l’onda rigeneratrice della prova e sotto i raggi del
divin sole, in frutto dolce, profumato, maturo per le più alte sfere.
Soltanto l’ignoranza delle leggi universali può renderci odiose le nostre
sofferenze: se comprendessimo che esse sono necessarie al nostro progresso,
e non ne temessimo l’amarezza, non ci sarebbero più di peso. Ma noi tutti
fuggiamo il dolore, e non ne apprezziamo l’utilità, se non abbandonando il
mondo su cui egli esercita il suo impero.
Eppure l’opera del dolore è feconda, esso fa germogliare in noi tesori di pietà,
di tenerezza, di affetto: coloro che non lo conobbero, nulla valgono, la loro
anima si commuove alla superficie, ma nulla in essi è profondo, né il
sentimento, né la ragione; e, non avendo mai sofferto, assistono indifferenti
alle sofferenze altrui.
Nella nostra cecità, noi imprechiamo alle esistenze oscure, monotone,
dolorose, ma quando spingiamo lo sguardo oltre gli orizzonti limitati della
terra, quando troviamo il vero scopo della vita, comprendiamo che queste
esistenze sono preziose, indispensabili per domare gli spiriti orgogliosi, per
sottometterci a quella disciplina morale senza cui non vi è progresso.
Liberi di agire, esenti da ogni cura e da ogni male, noi ci abbandoniamo alla
foga delle passioni, all’impulso del carattere e, lungi dal lavorare al nostro
miglioramento, non facciamo che aggiungere nuove colpe alle passate. Provati
dal dolore di umili esistenze, acquistiamo invece la pazienza, la riflessione, e
quella calma della mente che, sola, permette di intendere la voce superiore
della ragione.
Nel crogiuolo del dolore si plasmano le grandi anime: talvolta angeli di bontà
vengono, sotto il nostro sguardo, a vuotare il calice delle amarezze, come
esempio ai travolti dalla bufera delle passioni. La prova è una riparazione
necessaria, accettata con conoscenza di causa da molti di noi; che questo
pensiero ci sostenga nell’ora del pericolo, che l’esempio dei mali sopportati da
altri con rassegnazione toccante, ci doni la forza di rimanere fedeli alle nostre
promesse, ai virili propositi formati prima di unirci alla carne.
La nuova fede risolve il problema della purificazione per mezzo del dolore. La
voce degli spiriti ci incoraggia nelle ore difficili; essi, che già subirono tutte le
agonie dell’esistenza terrestre, ci dicono oggi:
«Soffersi e non fui felice che del mio soffrire; per esso scontai molti anni di
fasto e di piaceri. La sofferenza mi insegnò a pensare e a pregare; mai prima,
fra l’ebbrezze del piacere, la riflessione salutare mi era penetrata nell’anima,
mai la preghiera aveva sfiorato il mio labbro. Benedette le prove che mi
apersero finalmente la via della sapienza e della verità».

Tratto da: Dopo la Morte - Leon Denis -

martedì 12 marzo 2013

Mondi d’espiazione e di prova

Che dirvi dei mondi d’espiazione che voi già non sappiate,
poiché vi basta guardare la terra in cui abitate? La superiorità
dell’intelligenza di un gran numero dei suoi abitanti dimostra che non
è uno dei mondi primitivi, destinato alla incarnazione di Spiriti appena
formati dalle mani del Creatore. Le qualità innate che recanò in loro
sono la prova che hanno già vissuto e che hanno fatto un certo
progresso; ma anche i numerosi vizi ai quali si abbandonano, sono
indizio di una grande imperfezione morale. Ecco perché Dio li ha
inviati su una terra ingrata ad espiare le loro colpe con un lavoro
penoso e le miserie della vita, fino a quando essi non abbiano
meritato di trasferirsi in un mondo più felice.
Tuttavia, non tutti gli Spiriti incarnati sulla terra vi sono stati
inviati ad espiare. Le razze che voi chiamate selvagge sono composte
da Spiriti appena usciti dall’infanzia e che vi si trovano, per così dire,
per educarsi, sviluppandosi a contatto con Spiriti più progrediti. Poi
vengono le razze civilizzate a metà, che sono formate da questi stessi
Spiriti in via di progresso. Sono esse, in certo modo, le razze indigene
della terra, che sono cresciute a poco a poco in seguito a lunghi
periodi secolari, alcune delle quali hanno potuto raggiungere il
perfezionamento intellettuale dei popoli più illuminati.
Gli Spiriti che debbono espiare vi sono, se è possibile esprimersi
così, esotici, stranieri: hanno già vissuto su altri mondi dai quali sono
stati esclusi a causa della loro ostinazione nel male e perche vi
costituivano cause di turbamenti per gli Spiriti buoni. Sono stati
relegati per un certo tempo fra gli Spiriti più arretrati che hanno la
missione di far progredire, perché hanno portato con loro
un’intelligenza sviluppata ed i germi di conoscenze acquisite. È per
questo che gli Spiriti che sono in stato di punizione si trovano proprio
fra le razze più intelligenti; queste razze sono quelle per le quali le
miserie della vita hanno maggiore amarezza, perché sono più sensibili
e perché sono più colpite dal contatto con le razze primitive il cui
senso morale è più ottuso.

La terra presenta dunque uno dei tipi di mondi d’espiazione, le
cui varietà sono infinite, ma che hanno il comune carattere di servire
da luoghi d’esilio per gli Spiriti ribelli alla legge di Dio. In tali mondi
questi Spiriti debbono lottare in pari tempo contro la perversità degli
uomini e contro l’inclemenza della natura, duplice lavoro penoso che
sviluppa tanto le qualita del cuore quanto quelle dell’intelligenza. È
così che Dio, nella sua bontà, volge lo stesso castigo a profitto del
progresso dello Spirito. (SANT’AGOSTINO, Parigi, 1862).


Tratto da: Il Vangelo secondo lo spiritismo  -Allan Kardek-


venerdì 1 marzo 2013

Le prove e la morte


Fissando lo scopo dell’esistenza oltre la fortuna e il piacere, un intero
rivolgimento si opera nel nostro modo di comprendere la vita. L’universo è un
campo ove l’anima combatte per la propria elevazione, ed essa la raggiunge
cogli sforzi coi sacrifici, colle sofferenze. Tanto il dolore fisico quanto quello
morale, sono elementi necessari dell’evoluzione, mezzi potenti di sviluppo e di
progresso che ci insegnano a conoscerci meglio, a dominare le nostre
passioni, ad amarci sempre più. L’essere deve acquistare nel suo cammino la
fede, la scienza e l’amore; più sa, più ama e più si eleva. La sofferenza ci
obbliga a studiare per combattere e vincere le cause che la producono, e la
conoscenza delle cause risveglia in noi una più viva simpatia per coloro che
soffrono.
Il dolore è la suprema purificazione, la scuola a cui si attinge la pazienza, la
rassegnazione, tutte le doverose austerità; è la fiamma al di cui fuoco si fonde
l’egoismo e si consuma l’orgoglio. Tal volta, nelle tristi contingenze, l’anima
provata si ribella, rinnega Dio e la sua giustizia; ma quando, passato
l’uragano, essa si esamina, comprende che quel male apparente non era altro
che un bene, e riconosce che il dolore seppe renderla migliore, più accessibile
alla pietà, più tenera verso gli infelici.
Tutti i mali della vita concorrono al nostro perfezionamento; il dolore,
l’umiliazione, l’infermità, la sventura, separano lentamente il meglio dal
peggio, ed è per ciò che quaggiù vi sono più sofferenze che gioie. La prova
tempra il carattere, affina i sentimenti, doma le anime impulsive o superbe.
Anche il dolore fisico ha la sua utilità. Esso scioglie chimicamente i legami che
avvincono lo spirito alla carne, lo libera dai fluidi pesanti che lo avvolgono
anche dopo la morte, e lo trattengono nelle regioni inferiori. Così si spiega, in
certi casi, la morte prematura dei fanciulli: sono anime che avendo acquistato
il sapere e la virtù occorrenti per ascendere, vennero arrestate nel loro volo da
un residuo di materialità, e ritornano a completare la loro purificazione nella
sofferenza.
Non imprechiamo al dolore, esso soltanto può strapparci alla indifferenza e
alla voluttà, esso solo ci plasma l’anima donandole la sua forma più pura, la
sua più perfetta bellezza.
L’esperienza è un rimedio infallibile per la nostra ignoranza, e la Provvidenza
procede con noi come farebbe una madre antiveggente con un suo indocile
figlio. Quando noi resistiamo ai suoi richiami e trascuriamo i suoi
avvertimenti, essa ci abbandona alle delusioni ed ai rovesci, poiché l’avversità
è la miglior scuola della saggezza.
Tale è il destino della maggioranza; sotto un cielo solcato da qualche raro
lampo, noi dobbiamo percorrere un’ardua via, coi piedi lacerati dai rovi e
dalle pietre. Uno spirito in nere vesti guida i nostri passi: è il dolore - dolore
santo che noi dobbiamo benedire, poiché, scuotendo il nostro essere, lo
sbarazza dei vani gingilli di cui si compiace ornarsi, e lo rende atto a sentire
ciò che è nobile e bello.
Dati questi principi, la morte perde il suo spaventoso carattere, e risulta una
trasformazione necessaria, un rinnovamento. In realtà nulla può morire, la
morte non è che apparente; soltanto la forma esterna si muta, il principio di
vita, l’anima, rimane nella sua unità permanente ed indistruttibile.
Essa si ritrova al di là della tomba col suo corpo fluidico, nella pienezza delle
sue facoltà, con ciò che ha potuto acquistare - intelligenza, aspirazioni, virtù,
tutte le potenze di cui si è arricchita durante le sue esistenze terrestri.
Sono questi i beni imperituri di cui parla il Vangelo, i beni che «i vermi e la
ruggine non rodono e i ladri non rubano» sono queste le sole ricchezze che
possiamo portare con noi, e realizzare nella vita futura.
La morte, e la reintegrazione che a suo tempo la segue, sono due forme
essenziali del progresso; interrompendo le radicate abitudini che abbiamo
contratto, esse ci riconducono in altri ambienti, danno ai nostri pensieri un
diverso indirizzo, ci costringono a piegare il nostro spirito ai mille aspetti
dell’ordine sociale e universale.
Quando giunge la sera della vita, allorché la nostra esistenza sta per passare,
come la pagina di un libro che si svolge per far luogo ad una pagina bianca, ad
una pagina nuova, l’uomo saggio consulta il suo passato e richiama alla
memoria le sue azioni. Felice colui che in tale momento può dire a sé stesso di
aver speso bene i suoi giorni; felici coloro che accolsero con rassegnazione e
sopportarono con coraggio le loro prove! Essi, affinando l’anima nel dolore,
ne eliminarono tutto ciò che vi era di fiele ed amarezza. Ripensando a questa
vita difficile, il saggio benedirà le pene sofferte, e con serena coscienza, senza
paura, vedrà avvicinarsi l’istante della partenza.
Bando alle teorie che fanno della morte la soglia del nulla o il preludio dei
castighi eterni; tetri fantasmi della teologia, dogmi spaventevoli, sentenze
inesorabili, supplizi dell’inferno, fate luogo alla speranza, alla vita eterna! Non
una cieca tenebra, ma una luce abbagliante ci nasconde la tomba.
Avete mai osservato la farfalla, dalle ali dorate uscire dall’informe crisalide,
dal ripugnante involucro del bruco, nel quale l’insetto strisciava sul suolo?
L’avete veduta libera, nell’aria e nel sole, svolazzare di fiore in fiore? Nessuna
rappresentazione più fedele del fenomeno della morte. Anche l’uomo è una
crisalide che la morte trasforma; il corpo umano l’involucro di carne, ritorna
al gran letamaio, la nostra miserabile spoglia rientra nel laboratorio della
natura, ma lo spirito, che ha compiuta l’opera sua, si slancia verso una vita più
alta, verso la vita spirituale che segue a quella corporea, e separa ognuna delle
nostre incarnazioni come il giorno divide le notti.
Compresi da questa fede noi non temeremo la morte e, come gli antichi Galli,
oseremo fissarla senza terrore. Non più lamenti e lagrime, non più pompe
sinistre e lugubri canti: i nostri funerali diventeranno una festa che celebrerà
la liberazione dell’anima, il suo ritorno alla vera patria.
La morte è la grande rivelatrice; quante volte nelle ore di prova, quando fa
buio intorno a noi ci siamo domandati: «Perché sono nato? Perché non rimasi
nella notte profonda, là dove non si sente e non si soffre, dove si dorme il
sonno eterno?». E in queste ore di dubbio e di angoscia una voce si leva e sale
fino a noi, e questa voce dice: «Soffri per crescere e per purificarti; sappi che il
tuo destino è grande, che questa fredda terra non sarà il tuo sepolcro. I mondi
che brillano nella corona dei cieli sono le tue dimore future, l’eredità che Dio
ti riserva. Tu sei per sempre cittadino dell’universo; appartieni ai secoli
passati come ai secoli avvenire. Nell’ora presente stai preparando la tua
elevazione: sopporta dunque con calma i mali scelti da te. Semina nel dolore e
nelle lagrime il grano che germoglierà nelle tue vite future, semina anche per
gli altri, come altri seminarono per te! Spirito immortale, avanza con passo
fermo sul sentiero erto, verso le altezze da cui l’avvenire ti apparirà senza veli.
L’ascensione è penosa, e il sudore bagnerà spesso la tua fronte, ma dalla vetta
tu vedrai spuntare la grande luce, vedrai salire all’orizzonte il sole della verità
e della giustizia!».
Quella che così ci parla è la voce dei morti, delle anime amate che ci
precedettero nel regno della vera vita. Esse non dormono sotto la lapide del
sepolcro ma vegliano sopra di noi; dalle profondità dell’invisibile ci
contemplano e ci sorridono, e - mistero divino ed adorabile - ci parlano e ci
dicono: «Il dubbio è sterile, lavorate ed amate: quando avrete compiuta la
vostra parte, la morte ci unirà di nuovo». 

Tratto da:  Leon Denis - Dopo la Morte -