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Perché la gente ha tanta paura della morte? Perché la gente non ne vuole parlare, né sentir parlare?
Persino i miei genitori, i miei professori, i sacerdoti che mi insegnavano le Scritture della mia tradizione non sapevano nulla del fenomeno chiamato morte e si sentivano a disagio quando ne parlavo. Perché?
Seppi poi che non era una reazione tipica occidentale. Ho avuto infatti continue occasioni di vivere in Oriente ed essere in contatto con gli orientali e con le loro tradizioni. La morte è temuta da tutti. La Katha Upanishad, la scrittura del Vedanta completamente dedicata alla morte, inizia infatti con un’affermazione molto chiara (1,2,7):
«Molti non riescono neppure a udir parlare (del passaggio all’aldilà); molti, pur udendone parlare, non sanno intenderlo; una rarità è un maestro capace che sappia spiegarlo; una rarità chi, istruito da un esperto, giunga a conoscerlo».
Nel Mahabharata al saggio Yudhisthira fu chiesto: «Di tutte le cose della vita, qual è la più stupefacente?» Yudhisthira rispose: «Che un uomo, vedendo gli altri morire intorno a lui, non pensi mai che anch’egli morirà». […]
Il Corano incoraggia la gente a non temere la morte ma ad accettarla con pazienza e certezza perché la morte fa parte del processo della vita, e ad avere sempre in mente l’idea serena che la morte non è la fine della vita. Parlando dei morti dice: «Non credete che i vostri amati abbiano cessato di esistere. I morti, e lo dico in verità, sono più vivi di coloro che vivono» (Corano, 3,169). […]
La paura della morte fa parte del naturale istinto di sopravvivenza dell’uomo, ma da noi in Occidente non vi è solo timore per un processo che non si conosce, una paura dell’ignoto, vi è una vera e propria ossessione. Credo che essa sia dovuta ad un errore fondamentale e cioè al ritenere che la nostra esistenza si svolga nel seguente modo: si pensa che la vita cominci con la nascita, prosegua per un certo numero di anni, contati dal nostro destino, e termini con la morte. La nascita diventa così l’inizio della vita, la morte diventa così la fine della vita.
In questa vita noi ci identifichiamo con ogni cosa che abbiamo, che siamo, che saremo. La morte diventa la fine di tutto, la separazione totale dal nostro corpo, dai nostri averi, dai nostri familiari, dai nostri sentimenti, e da questo nascono per estrapolazione tutti gli altri nostri problemi, le nostre paure, le nostre ansie, le nostre angosce.
La morte è diventata la nostra peggior nemica. È così che la vediamo perché è così che ci viene insegnata.
Esattamente l’opposto di quello che dicono i libri sapienziali di tutte le tradizioni ed i grandi saggi di ogni epoca:
«La morte non è la fine della vita. È invece un aspetto della vita. È qualcosa che accade nel corso della vita. È necessaria per la nostra evoluzione. La morte non è l’opposto della vita. È solo una fase della vita. La vita continua a fluire senza sosta» (Swami Sivananda);
«Perché gli uomini muoiono lamentandosi tanto? Come si insegna ai bambini la matematica, la scrittura e tutto ciò che deve essere imparato bisogna insegnare loro anche la grande dignità della morte… Noi non sappiamo vivere e per questo non sappiamo morire. Finché avremo paura della vita, avremo paura della morte» (Sri Aurobindo);
«La nascita non arresta la morte. La morte non arresta la nascita» (Dogen);
«Colui che sa che l’anima è saggezza, senza vecchiaia, eternamente giovane, non teme la morte, poiché sarà libero dai propri desideri; immortale, perché saprà di essere l’unica cosa esistente, libero da ogni mancanza» (Atharva Veda, 10,8,43-44).
Perché esiste la morte
Nella sezione “Mokshadharma” del Mahabharata, il saggio Yudistira chiede a Bishma cosa sia la morte e perché esista. Bishma racconta che Dio, essendo creatore, assolve questo suo compito senza sosta in questo universo. Ma un tempo, non essendoci la morte, ogni cosa cresceva e si moltiplicava, nasceva, viveva ed invecchiava, ma non moriva. Dio cominciò a preoccuparsi di una situazione che diveniva esasperata. Non potendo distruggere tutti per ristabilire un equilibrio, chiamò Mrityu, l’energia che sostiene la vita, e diede ordine che questa energia svolgesse il suo compito solo per un certo numero di anni, in maniera differenziata per ogni specie e per ogni individuo. Questo fu reso noto in tutto l’universo, così che la morte non fosse considerata solo un evento individuale ma che tutti sapessero che chi viene al mondo attraverso un qualsiasi tipo di nascita, dovrà necessariamente, scaduto il suo tempo, morire.
«Certa è la morte per chi è nato e certa è la nascita per chi è morto. Quando vi è nascita, vi è morte. Quando vi è morte, vi è rinascita» (Bhagavad Gita, 2,27).
«Si nasce e si muore, si rinasce e si muore di nuovo. Si entra nel grembo di una madre numerose volte» (Adi Shankaracharya. Carpatapanjarika Stotram).
«Oggi celebrano il cordoglio; domani sarà il loro turno di essere oggetto di cordoglio» (Proverbio cinese).
Possiamo prepararci a morire?
Come possiamo fare amicizia con la nostra mente, per evitare che ci crei dei problemi in punto di morte?
La Bhagavad Gita (8,5) rassicura tutti dicendo: «Comunque, se al momento della morte esci dal tuo corpo, ricordando me soltanto, allora ti fonderai con me».
Per poter pensare soltanto a Dio al momento della morte, la paura della morte deve aver trovato soluzione da tempo. Ciò non avviene con una conoscenza teorica della morte, ma soltanto con una pratica costante di meditazione che ci permetta non solo di conoscere la via che porta allo stato trascendentale dell’Essere, ma di avere con il nostro Sé assoluta familiarità.
«Ho visto il mio signore con gli occhi del mio cuore e gli ho chiesto: “Chi sei?”. Egli mi ha risposto: “Te”» (Al-Hallaj).
«Espongo me stesso alla morte ogni giorno. […] Bisogna che questo corruttibile rivesta incorruttibilità, e che questo mortale rivesta immortalità. E quando questo corruttibile sarà vestito di incorruttibilità, e questo mortale di immortalità allora sarà adempiuta la parola che è scritta. “La morte è stata sommersa nella vittoria. Oh morte dove è più la tua vittoria? Oh morte dove è il tuo dardo?”» (Paolo, 1 Corinzi, 15,31 e 53-55).
Solo così le paure, le ansie, le angosce, il dolore del distacco saranno da lungo tempo superate e la via luminosa che porta all’incontro con il Divino trascendente si aprirà di fronte a noi.
L’ultimo pensiero ed emozione
Essi sono di enorme impatto sul nostro immediato futuro dopo la soglia della morte. Questa è la ragione veramente essenziale dell’accompagnamento del morente. Insieme a un’opera umana e a un desiderio meraviglioso di esprimere compassione, l’assistenza al morente dovrebbe servire per indirizzare la sua attenzione sulla vera natura della morte, cioè la realizzazione del Divino. Dovremmo tutti morire con un pensiero soltanto: la certezza e la splendida aspettativa di unirci a Dio.
«L’ultimo pensiero al momento della morte ha un effetto causale di grande importanza sul nostro futuro» (Sogyal Rinpoche, Il libro tibetano del vivere e del morire). […]
«Pensate a Dio al momento della morte e lo realizzerete» (Anandamayi Ma).
«La nuova incarnazione è determinata dai pensieri che il defunto ha al momento della sua morte» (Narada-parivrajaka Up.).
«L’ultimo pensiero di un uomo determina il suo futuro destino. L’uomo desidera sempre morire in pace con la sua mente fissa in Dio. Per questa ragione si cantano al capezzale di un morente la Bhagavad Gita od i Vishnu Sahasranama [i mille nomi di Vishnu], per aiutare il morente a dimenticare i suoi attaccamenti e pensare a Dio. È tuttavia difficile conservare la coscienza di Dio in quei momenti se non si è disciplinata la mente con le pratiche nel periodo della vita. Non viene dalla pratica di un paio di giorni, o di una settimana o di un mese» (Swami Sivananda, Bliss Divine).
Non avere più attaccamenti
S’intende l’attaccamento che proviamo per proprietà, amicizie, moglie, marito, figli, persone care, vita, eccetera. Non avere attaccamenti non significa non amare, ma essere profondamente certi che amore non significa possesso.
Kahlil Gibran ci sollecita a farlo con due risposte; nella spiegazione del matrimonio dice: «Amatevi l’un l’altra ma non fatene una prigione d’amore […] Riempitevi a vicenda le coppe, ma non bevete da una coppa sola. Datevi cibo a vicenda ma non mangiate dello stesso pane. Cantate e danzate insieme e siate giocondi, ma ognuno di voi sia solo, come sole sono le corde del liuto, sebbene vibrino di una musica uguale» e quando parla dei figli dice: «I vostri figli non sono i vostri figli […] essi non vengono da voi ma attraverso di voi e non vi appartengono, benché viviate insieme» (Kahlil Gibran, Il Profeta).
Questo raggiungimento è senz’altro molto difficile. In sanscrito è chiamato vairagya e può essere perseguito solo praticando costantemente la meditazione. La meditazione è la forma più alta di distacco, perché ci allontana dalla consapevolezza di essere il nostro corpo, di essere la nostra mente. Durante la meditazione la nostra vera identità è con il Sé, e da quella prospettiva possiamo vedere il nostro corpo funzionare, la nostra mente pensare, diventando così certi di non essere né le nostre azioni, né i nostri pensieri né i nostri desideri. Essi scorrono come un film sullo schermo della nostra mente mentre il Sé, che siamo noi, osserva, non coinvolto. «Chi non si è staccato dal peccato, o non è tranquillo, equanime e focalizzato, non ha la mente serena e quindi non riesce a raggiungermi con piena conoscenza» (Katha Up. 2,24).
Testamento molto chiaro ed equilibrato
Discutetelo con i vostri figli in vita. Tutto sia accettato da tutti. Una delle ragioni di litigio più ricorrenti tra i vari componenti di una famiglia è il testamento del padre o della madre. Nella nostra tradizione il testamento non solo non viene discusso con gli eredi, ma viene tenuto segreto o depositato addirittura da un notaio. Spesso, in maniera espressa o subdola, è motivo di ricatto morale. L’apertura del testamento è sempre un momento di incertezza, di esaltazione o di delusione. Ancora oggi vi sono famiglie che non hanno più nessun rapporto o addirittura sono ancora in completa rottura per il testamento di un bisnonno. I pronipoti probabilmente non conoscono nemmeno più i motivi per i quali è loro negato di avere rapporti.
I Libri sapienziali e le esperienze di pre-morte (NDE) sono estremamente chiari in proposito. Dicono che, al di là della soglia della morte, per un periodo di tempo più o meno lungo, il morto continua a vivere e a presenziare alle vicende della propria famiglia. Sarà quindi presente certamente all’apertura del testamento, specie se questo, di proposito, favorisce uno o più membri a scapito di altri. Qualsiasi inadempienza al testamento, o qualsiasi rifiuto di accettazione, causerà nel morto uno stato di agitazione e di reazione. Questi stati lo terranno ancor più legato ad un piano di esistenza che egli invece dovrebbe lasciare in tutta serenità.
Atmosfera più serena possibile
S’intende che debba essere senza forti emozioni. Dovremmo cercare di mantenere l’atmosfera intorno al morente assai serena. Egli infatti non va distratto dall’unico pensiero che è a quel punto veramente importante: il pensiero di Dio. Qualsiasi argomento o emozione sarà causa di distrazione dall’unico obiettivo che va perseguito. Bisognerebbe permettere al morente di aprire se stesso all’esperienza della sua natura trascendentale anche se egli non ne avesse mai percepita l’esistenza, e questo potrà essere fatto soltanto da un’assistenza silenziosa, compassionevole ed amorevole. Lo stato mentale al momento della morte è di cruciale importanza:
«In punto di morte di solito gli atteggiamenti con i quali si ha una lunga consuetudine prendono il sopravvento e dirigono la rinascita. Per lo stesso motivo si genera un forte attaccamento verso noi stessi, perché temiamo di entrare in uno stato di non esistenza. Questo attaccamento svolge una importante funzione al momento della morte e negli stadi successivi. Lo stato mentale al momento della morte è quindi decisivo» (Sogyal Rinpoche, Il libro tibetano del vivere e del morire).
«Quando il Profeta, a lui il saluto e la benedizione, uscì con noi dalla moschea, incontrammo un uomo: “O inviato di Dio, a quando l’ora ultima?”. Il santo profeta gli rispose: “Cos’hai preparato in vista di quell’ora?”. L’uomo disse: “O inviato di Dio, in vista di quella, non ho detto molte preghiere, né molte ripetizioni del nome, ma ho amato Dio nel suo inviato”. Maometto sorrise e rispose: “Allora tu sarai con chi hai amato”» (Anas Ibn Malik).
Sistemare i problemi irrisolti
Sarebbe indispensabile nella vita non avere mai contrasti con nessuno, ma ciò è veramente difficile, spesso impossibile, perché i contrasti fanno parte del nostro karma. Il karma è il risultato di azioni compiute nel passato. In ogni caso dovremo cercare di risolvere queste difficoltà di rapporto, sia chiedendo la collaborazione dell’altra persona, sia, se questa non accetta nessuna soluzione, avendo assolutamente chiarito all’interno di noi che ogni onda di reazione ad azioni passate è scomparsa.
A questo proposito vi voglio raccontare una storia che divertiva molto il mio guru. Una moglie si era accorta che il marito la tradiva e aveva reagito, come ben potete immaginare, con molta violenza. Il marito, pentito del tradimento, promise che non avrebbe continuato la relazione adulterina se la moglie lo avesse completamente perdonato e avesse dimenticato l’episodio. La moglie acconsentì, ma, in ogni momento successivo di incomprensione, ricordava al marito la sua debolezza. A un certo punto il marito reagì e disse: «Avevi detto che avresti dimenticato e invece persisti nel ricordare». «No – rispose la moglie, – io ho completamente dimenticato, ma lo ricordo a te, perché sei tu che non devi dimenticarlo!»
Non è ovviamente questo che intendo per risolvere i problemi aperti. Bisogna essere certi che in tutta innocenza i nostri problemi irrisolti abbiano, almeno per noi, trovato definitiva soluzione.
L’autorizzazione a morire
È importante ricevere dai parenti l’autorizzazione a morire e dare a noi stessi la stessa autorizzazione. Bisognerebbe cercare di arrivare al momento della morte avendo chiarito assai bene la sua ragione e i suoi aspetti positivi. Solo se questi saranno chiari saremo in grado di accettare la nostra morte e quella degli altri in qualunque modo e momento essa avvenga. Si attraversano molte fasi nell’agonia, ma l’augurio che facciamo ad ogni essere umano è quello di arrivare a varcare la soglia tra questo e l’altro mondo in assoluta accettazione, pace e armonia. Vi sono due tipi di accettazione: una è passiva, e consiste nel vivere la morte come il peggiore dei mali, ma tuttavia inevitabile; vorremmo cercare in tutti i modi di evitare la morte, perché la riteniamo la nostra peggiore nemica, ma la natura reclama i suoi diritti e a questi dobbiamo piegarci. Moriremo quindi in un’accettazione dolorosa. Il secondo tipo di accettazione è attivo: abbiamo ormai consolidato all’interno di noi le ragioni profonde dell’esistenza della morte, e siamo assolutamente certi che essa sia una benedizione per l’uomo, così come lo è stata la nascita; il cammino evolutivo ha bisogno dell’alternarsi di questi due momenti nel ciclo della vita. Saremo quindi contenti di essere nati, contenti di vivere, contenti di vivere a lungo, contenti di morire.
«Colui che sa che l’anima è saggezza, senza vecchiaia, eternamente giovane, non teme la morte, poiché sarà libero dai propri desideri, immortale, perché saprà di essere l’unica cosa esistente, libero da ogni mancanza» (Atharva Veda, 10,8,43-44).
«Morire non è altro che cambiare vestito» (Anandamayi Ma).
«Sperimentato l’Infinito, siamo liberi dalla morte e la vita diviene un gioco della nostra esistenza terrena» (Vivekananda).
«Dopo aver perduto suo figlio, Rabbi seguiva il feretro danzando. Alcuni Chassidim furono stupiti. Rabbi spiegò: “È un’anima pura che mi è stata affidata. Quest’anima pura oggi rendo al Divino”» (Rabbi Levi Yitzchak).
Tratto da : Cesare Boni “Dove va l'anima dopo la morte”
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